La sincerità nei piatti dello chef del “Trima”

Luca Daniotti propone ristorazione a base di pesce a Melegnano

Da ieri pomeriggio, da quando cioè l’ho incontrato per la prima volta, sto riflettendo a lungo su Luca Daniotti, chef e proprietario dell’elegantissimo ristorante Il Trima di Melegnano.

Mi è infatti piaciuta la sua disarmante sincerità, e penso che questa qualità debba per forza rispecchiarsi nei suoi piatti, che ovviamente non vedo l’ora di assaggiare. Vado a fiuto, e raramente ho preso inganni, ma la sua è una cucina che conserva inalterato il piacere delle emozioni.

Il locale, nei pressi della stazione di Melegnano, merita già una visita, ma non credo che le soste turistiche, durante le tavolate, possano essere mai contemplate: un ambiente, con le volte di mattoni antichi, è ricavato in una cantina, mentre nel piano superiore, da pavimento a soffitto, delle raffinate scaffalature, zeppe delle più diverse varietà di vini, fungono da suggestiva parete come un’ampia cornice.

Luca è con suo padre, Antonio: anch’egli collabora nel ristorante, funge da maitre, fintamente austero, ma con guizzi di sorrisi, sinceri come quelli del figlio.

Mi soffermo davanti a questa incantevole parete di vini e, a mia volta, porgo sinceri e accalorati complimenti: «Sono contento che ti piaccia - dice Luca -; in questo ambiente siamo arrivati da poco, a novembre del 2022; qui prima c’era un’osteria, alla buona, si chiamava Trimater: era già chiusa da un paio d’anni. Dalla denominazione di quel locale, tuttavia, abbiamo mutuato il nostro: da Trimater a Trima».

Tu eri già da tempo uno chef di un certo livello, mi hanno detto.

«I miei esordi risalgono al 2007, ma era tutt’altro genere di attività: avevo un bar, facevamo cocktail e pranzi veloci. Poi l’anno successivo ho rilevato il noto ristorante Il Portone, sempre qui a Melegnano, dove sono stato per 14 anni, cioè sino all’aprile del 2022».

Quando cominciasti avevi 22 anni: sentivi il rischio della giovane età?

«No, non direi. Senza darti l’impressione di immodestia, ma sapevo il fatto mio. Avevo fatto la scuola alberghiera, e durante gli studi avevo maturato alcune esperienze in ristoranti di Milano e, durante le estati, in Romagna. Mi sentivo sicuro».

Che tipo di cucina hai proposto a Il Portone?

«Inizialmente quella tradizionale lombarda; quindi risotto, paste fresche, ossobuco, cotoletta alla milanese, per intenderci. Ma dopo qualche anno ho realizzato una svolta radicale e ho cambiato completamente menu».

Verso quale indirizzo?

«Ho scelto la cucina creativa. Sentivo il fortissimo bisogno di inventare. Credo di averci messo tantissimo di mio in questa scelta, intendo anche a livello caratteriale, emotivo. Tutte le volte che potevo, andavo nei locali stellati di Milano. E studiavo i piatti. Ho comperato una infinità di libri degli chef più importanti nel mondo. E valutavo ogni tipo di soluzione».

Chi è uno chef che più di altri ti ha impressionato?

«Sicuramente Claudio Sadler. Mi era capitato di lavorare per i suoi catering, e ho voluto approfondire le sue proposte. Di lui ho sempre apprezzato la capacità di rendere armoniosi contrasti evidenti. Come il pesce abbinato ai formaggi, per darti l’idea. Lui lavora su 5 elementi differenti, molto diversi tra loro, ma sempre garantendo l’equilibrio».

Ma quando andavi nei locali stellati ti limitavi a mangiare, o cercavi di approfondire con lo chef quei piatti?

«Quando ho potuto, ho sempre cercato il confronto. E, comunque, questa fase mi è servita a prendere convinzione nelle mie proposte di cucina evolutiva e creativa».

Ad esempio, mi dici un tuo piatto forte di quel periodo?

«Potrei dirti risotto al rosmarino, caprino, limone e polvere di liquirizia».

E un secondo?

«Il petto d’anatra, cucinato a bassa temperatura, con crema di ripa bianca e marmellata di cipolla. Ti ho fatto solo un paio di esempi, ma in quel periodo mi sono veramente coinvolto tantissimo nei processi di invenzione».

E poi cosa è accaduto?

«Ho smesso di divertirmi. Il locale aveva raggiunto numeri importanti, come clienti, e come dipendenti. Ma era arrivato il mio secondogenito e avevo bisogno di staccare. Le fasi da un locale all’altro te le ho già dette».

Intuisco, però, che deve esserci stato dell’altro. Mi sbaglio?

«È vero. Diciamo che l’invenzione si accompagna alla pressione, desideri sempre trovare soluzioni nuove. E a volta mi scontravo con i gusti di una clientela che pretendeva di saperne più di chi si ingegnava ai fornelli. In cucina siamo tutti competenti: chef e commensali. Ma non è mai per davvero così. E certi commenti di chi non conosce questo mestiere hanno costituito l’ultima goccia della mia tolleranza».

La pausa, però, non è durata a lungo per fortuna.

«Sì, ma mi sono rimesso in gioco con idee diverse. Ho optato per una cucina semplice, classica, a base di pesce; ad esempio, abbiamo una selezione differente di ostriche, ricci di mare, scampi, gamberi, ci sono pure le cozze allevate di Mont Saint Michel, e le buccine…».

Chi sono i tuoi fornitori?

«Lavoro con pescatori italiani, spesso mi rivolgo ad uno di Fano, o ad un altro di Mazara del Vallo, e da cui prendo tonni rossi, pesce spada, ricciole pescate col metodo giapponese, cioè in modo che le carni rimangano limpide, pulite e rigide».

Mi parli di Mazara del Vallo e mi tocchi le cuore del cuore: paese stupendo! Ma al Nord c’è la cultura del pesce sulla tavola?

«È un luogo comune dire che possa mancare. Anzi, ti assicuro che una città come Milano ha sul pesce una vastissima cultura, e anche nel passato un locale che voleva affermarsi puntava su questa particolarità».

Tentami con un piatto, allora!

«Spaghetto ai ricci di mare e bottarga, che poi è un classico della cucina sarda. Oppure un piatto molto richiesto è il carpaccio di tonno rosso con polvere di olive taggiasche, capperi e colatura di alici, un crudités».

E se insistessimo invece sul cotto?

«Spaghetti con emulsione di ricci all’olio, mantecati come se fosse una maionese. Oppure una grigliata di pesce alla romagnola, in ricordo alle stagioni estive di quando ero studente».

Come la serviamo?

«Con sogliole, calamari, seppia e coda di rospo, ma anche polipo e calamari, passati con pan grattato aromatico e messi sulla griglia».

Mi parli di pesce e inevitabilmente ti chiedo del vino: solo rigorosamente bianco?

«No, non direi. Prendi una zuppa di moscardini, cozze e nduja, con il vino rosso va alla grande. Come per la zuppa di pesce, stile quella del caciucco alla livornese. Comunque, visto che hai toccato l’argomento, noi abbiamo una selezione di vini franciacorta e champagne, e anche di bolle slovene».

Come mai dalla Slovenia?

«Perché lì si producono vini naturali in biodinamica, tra terra e cielo, in assenza di pesticidi in vigna, non utilizzando solfiti e lieviti selezionati. Poi, oltre a questi vini selezionati, ne abbiamo altri convenzionali».

Il pesce è protagonista sul tuo menu, quindi il dessert lo bypassiamo?

«No, anzi. Dovresti assaggiare il mio gelato al pistacchio, che realizziamo con l’aggiunta del sale di Maldon, un sale inglese in fiocchi, che alimenta i sapori. Oppure un paté di mele con gelato di crema».

Paradossalmente ti chiedo, solo alla fine, dell’antipasto; quanto è importante nel tuo menu?

«Non ne ho parlato prima perché non me lo hai chiesto. Lo considero il piatto più importante di una cena: d’altra parte oggi non si usano più le tre, quattro portate, e i clienti scelgono spesso di cominciare proprio dall’antipasto, optando poi per una portata, piuttosto che per un’altra. E poi, a mio avviso, anche solo inconsciamente, l’antipasto influisce positivamente o negativamente sulla valutazione della seconda portata».

Posso farti una domanda molto personale? Mi sembri un uomo geniale, ma che va a strappi, come lo immagini il tuo futuro?

«Mi piace mettermi in discussione. Ho volutamente scelto di rimpicciolire la mia attività, privilegiando la famiglia e la mia serenità. Magari, sempre relativamente agli obiettivi di lavoro, domani capovolgo tutto, e torno a progettare le cose in grande, intendo come spazi e mole di attività. Uno strappo per volta»

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