Le storie che si celano dietro ogni piatto

Viaggio al ristorante Cà de Mazzoli di Livraga: in cucina Adriano Boschi

Quando arrivo al ristorante Ca’ de Mazzoli, nell’omonima frazione di Livraga, nel varcare la cancellata di ferro, dico a me stesso che, probabilmente, quella con il cuoco e proprietario del locale, sarà un’intervista veloce. Nel raggiungere gli accordi per l’incontro, infatti, avevo ravvisato che sarei stato ricevuto quale gesto di cortesia, per via di amicizie in comune, ma che oltre le forme non saremmo andati.

Adriano Boschi è, d’altra parte, un uomo che preferirebbe non muoversi dalla cucina: il suo luogo è lì. Ogni incombenza di relazione è delegata alla moglie, la signora Vittorina Costa, e ad uno dei figli. Mi chiedevo perciò che tipo di persona avrei incontrato, in quanto, in effetti, le volte che mi è capitato di mangiare alla Cà de Mazzoli, sempre bene, non l’ho mai visto.

Quando ci stringiamo la mano, nelle presentazioni, lo scruto attentamente: dove l’ho già incontrato? Sarà lui stesso a svelarmelo durante la chiacchierata.

L’incontro non è stato fugace, come supponevo. Anzi, ci siamo attardati, per il piacere di parlare e raccontare, perché ogni suo piatto svela una storia. La sera s’allungava e veniva da dirgli: Adriano, facciamoci due spaghetti alla buona.

Lei non è originario di queste parti, vero Adriano?

«Le mie radici sono bergamasche. Ma i miei genitori avevano una rosticceria ad Inzago. Avevano avviato l’attività agli inizi degli anni Sessanta. Papà si chiamava Giovanni, ed era del 1939: un uomo vulcanico, pieno di idee, non stava fermo un attimo. Mi mamma, Angela, che oggi ha 86 anni, l’aiutava al bancone».

Ma come devo immaginarla questa rosticceria?

«Papà preparava piatti pronti, lasagne, cannelloni, merluzzo con cipolle. La domenica era una continua processione di clienti».

Poi cosa accadde?

«I miei vollero spostarsi a Crema, rilevando un bar che era anche un’attrezzata paninoteca; anzi al piano di sopra per un certo periodo realizzammo pure un ristorante, ma il locale era una meta incessante di giovani che prediligevano i panini e, dopo un po’, ci indirizzammo esclusivamente verso quell’attività. Io avevo frequentato la scuola alberghiera Vespucci di Milano e mi ero perciò affiancato ai miei genitori».

E quand’è che si mette in proprio?

«Quando ho incontrato Vittorina, e insieme abbiamo deciso di rilevare il bar Masseroni di Lodi, cosa che avvenne nel 1989».

Ecco dove l’ho vista!

«Sicuramente. Quell’attività la rilevammo da Andrea Sironi, lo ricorda? Quando cedette a noi, prese la conduzione del ristorante il Gattino di corso Mazzini, a Lodi: era un uomo bravo e meticoloso».

Ricordo molto bene anche lui. E com’è andata l’esperienza al Masseroni?

«Gli inizi sono stati difficili. Non so, forse il fatto che arrivassimo da Crema, percepivamo quasi diffidenza. All’epoca avevo 25 anni, mia moglie 21: ma è stata solo questione di tempo. Siamo rimasti lì per 15 anni, sino al 2004».

Dopodichè avete avviato il ristorante Cà de Mazzoli?

«Esattamente. Sentivamo la necessità di una prospettiva differente, anche per i nostri ragazzi: Matteo, e i due gemelli, Giovanni e Lorenzo. Due di loro, Matteo e Giovanni, hanno frequentato a propria volta la scuola alberghiera di San Pellegrino».

E come sono stati gli inizi?

«Le idee erano chiare: Vittorina doveva occuparsi della sala, io dei vini, ed in cucina avevamo il cuoco; in realtà ne abbiamo cambiati tanti e non eravamo mai del tutto soddisfatti».

E quindi?

«Con mia moglie ed i ragazzi ci siamo messi al tavolino e ci siamo detti: nel bel nulla del territorio lodigiano cosa possono cercare i clienti, quale identità, quale proposta? E sa cosa ho fatto? Ho rispolverato le ricette di mio padre e di mia madre, a queste aggiungendo, grazie agli intuiti dei miei figli, un tocco di originalità. Sono entrato in cucina, sentendomi del tutto a mio agio: è stato come ritrovare le radici, penso possa capirmi, vero?».

Più di quanto lei non possa immaginare!

«Ho pensato a cosa la gente non mangia più in casa, ai sapori di una volta, perché di tempo ne abbiamo sempre meno e si va sempre di corsa».

Vediamoli questi piatti. Come primo, cosa mi propone Adriano?

«I ravioli con il ripieno dell’ossobuco, serviti su un letto di verdure varie e con la gremolada esterna (quest’ultima con salvia, rosmarino e aglio, alcuni vogliono la scorza di limone, ma poi diventa leggermente amara). Oppure, se preferisce, il classico risotto alla milanese. O ancora, gli gnocchetti di castagne, fatti rigorosamente da noi, con fonduta di taleggio e tartufo nero».

Va molto di moda il tartufo!

«Quelli neri arrivano da Norcia, mentre quelli bianchi da Alba. È fondamentale affidarsi ad un giusto cavatore».

A chi?

«Ad un cavatore, il tartufo è un fungo sotterraneo, ed un alimento prezioso: va gustato su un piatto neutro, per coglierne in profondità l’essenza».

E invece come secondi?

«Un cappello del prete? Si tratta di un brasato, un taglio di carne attraversato da un nervetto che, una volta cotto, diventa gelatinoso: servito con polenta e verdure è di una bontà unica. Le preciso una cosa».

Mi dica.

«La sera, dal venerdì alla domenica, abbiamo un menu alla carta, con piatti di un certo tipo, diciamo che proponiamo cene anche sfiziose, se così può dirsi. Ma i nostri quotidiani pranzi di lavoro hanno delle proposte molto particolari, che sono appunto un richiamo delle antiche ricette della tradizione: pasta e fagioli, zuppa di legumi, trippa, costine alle verze, anatra, coniglio, la cassoeula, quella completa ed originale. Vorrei dire un’altra cosa».

Non si faccia pregare!

«Noi il menù alla carta lo cambiamo ogni quattro mesi, seguendo anche il ciclo delle stagioni; ma ogni fine settimana abbiamo comunque dei piatti extra, che contemplino una diversa varietà di scelta».

E invece quello per così dire di lavoro?

«Varia ogni giorno. Al mattino alle 6.30 sono già al locale, riassetto quello che può essere rimasto indietro del giorno precedente, mi siedo al tavolo, e comincio a pensare. Al più tardi alle 8 i nostri fornelli sono già accesi. Stamani, ad esempio, avevamo la nostra pasta fresca fatta in casa con i fagioli».

Adriano, mi è venuta in mente una cosa. A proposito di cassoeula. Un anziano oste milanese, quando me la proponeva, mi faceva prima bere un bicchierino di grappa.

«Giusto rimedio, fondamentale per sgrassare la pietanza. Ma oggi i prodotti sono più magri, compresi salumi e cotenne. Ci tengo molto che la mia cassoeula sia sgrassata al massimo, prima di servirla la passo anche al forno, e penso che sia assolutamente digeribile».

Entrambi i figli l’aiutano in cucina?

«Ai fornelli c’è Matteo, che cura in particolare gli antipasti ed i secondi. Giovanni invece è in sala e si dedica all’enoteca. Abbiamo una cantina a cui prestiamo molta attenzione, perché i clienti, in fatto di vini, sono diventati sempre più competenti ed esigenti».

Ma ne sanno, o è un atteggiamento?

«Ci sono tanti corsi per imparare a divenire quantomeno intenditori. Perciò ci facciamo trovare pronti».

Posso fare una domanda che non ho sinora fatto a nessuno?

«Certamente. Di cosa si tratta?».

Ma se lei non avesse fatto il cuoco, quale altro lavoro avrebbe voluto fare?

«Sin da bambino, sono cresciuto vedendo lavorare mio padre. In cucina, mani in pasta e profumo di cannelloni. Io vivo sullo stile casa e bottega. Mi trova sempre qui. Davvero, non avrei voluto fare altro nella vita, e comunque non ci ho mai pensato. Non so risponderle».

I cannelloni mi ricordano l’infanzia, devo rimproverarla di avermi acceso il cuore di nostalgia!

«Il cibo è come un richiamo, un’eco: sa fare ritrovare le identità».

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