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Lunedì 11 Novembre 2024
Lucrezia ed Elisabetta, il futuro del vino è donna
LA CUCINA DELL’ANIMA Viaggio nell’azienda Poderi San Pietro di San Colombano al Lambro
Certe conversazioni sono come i viaggi intrapresi senza bussola, né mappe geografiche: rappresentano un’incognita, un diverso modo di esplorare l’esistenza, il più delle volte una sorpresa.
Avremmo dovuto parlare solo di vini, ma non è andata così, con Lucrezia: lei è una giovane imprenditrice della dinastia dei Toninelli, quel ramo che segue in particolare il comparto vinicolo, e che nel marchio di famiglia, cioè quello dei Poderi di San Pietro, di San Colombano al Lambro, immette tutto il suo entusiasmo giovanile, che nella testa e nel cuore non ha argini, mentre nelle scelte concrete riversa la giusta misura, quella che occorre negli affari, allorquando prima di ogni cosa va anteposta la ragione.
E avremmo dovuto solo parlare di abbinamento tra cibo e vini con Elisabetta Luciano, arguta sommelier dell’azienda, originaria di Codogno, e che il territorio lo conosce molto bene, ma possiede l’innata indole di non vantarsi: attentissima nell’ascolto, diretta nel suo raccontare.
Allora, vorrei cominciare questa nostra chiacchierata con Lucrezia, posso? Hai scelto tu di occuparti dell’azienda vinicola o sono piovuti ordini dall’altro, sii sincera, lo capisco se m’inganni…
«La verità è che la mia è stata una scelta spontanea, anche se inizialmente mi ero occupata di contabilità in altre aziende di famiglia. Ma il mio corso di studi l’avevo scelto proprio in virtù del fatto che avrei voluto impegnarmi qui, di vini sentivo parlare già da bambina».
Cosa hai studiato?
«Ho conseguito la laurea magistrale in Food Marketing e Strategie Commerciali. Da un paio d’anni lavoro qui a tempo pieno».
Com’è avere per amministratore delegato il proprio padre? Io l’ho incrociato una sola volta, Giuliano Toninelli: mi dicono che sul lavoro sia intransigente.
«Con lui, oltre che un rapporto famigliare, c’è una relazione di stima. Confermo le tue impressioni: papà non è uomo che ami ripetere una stessa cosa due volte. Al tempo stesso se ritiene che una mia idea sia valida mi lascia fare».
Che ricordo hai di lui quando eri bambina?
«Mi raccontava sempre, alla sera, la storia del Barba: io ne ero atterrita, e correvo subito a dormire».
Barba chi?
«Era un personaggio popolare di un suo racconto: un anziano girovago, con una barba lunghissima, che si aggirava per le cascine in sella alla propria bicicletta; le sue pedalate emettevano un suono sinistro e lugubre, proprio terrorizzante. Papà era molto preso dal lavoro, però quando andavamo a mare si giocava insieme: lui faceva lo squalo e doveva mangiare noi figli; oppure alla lotta, ma lì vinceva sempre mio fratello Edoardo».
Quando sei arrivata in azienda, cosa hai fatto come prima azione indipendente?
«Ho svecchiato le etichette delle bottiglie dei vini, che erano stantie, sorpassate e, a mio avviso, non valorizzavano il prodotto. Ho cercato di proporre soluzioni che conferissero personalità. Ad esempio, quattro etichette le abbiamo riservate alla linea Milano, proprio per geolocalizzare maggiormente la nostra azienda. Ho rafforzato anche la nostra immagine, come grafica, ma siamo ancora agli inizi».
Mi fai capire meglio la vostra dimensione, proprio in termini di produttività?
«Il nostro prodotto equivale a circa 150mila bottiglie l’anno, su 50 ettari vitati: il tutto, dalla vigna alla bottiglia. Abbiamo 18 etichette, certe volte penso che siano troppe, ma finchè sono richieste perché non produrle? A me piacerebbe che ci concentrassimo maggiormente su uno dei nostri vanti: il Rosso di Valbissera, fatto con croatina, barbera, uva rara, con un passaggio in barrique di legno».
Sembra buono.
«Ne abbiamo pure una versione superiore, vale a dire il Monastero di Valbissera, con tre anni di affinamento in barrique di rovere francese, un vino corposo, che ha ottenuto diversi riconoscimenti anche a livello nazionale».
Non tocchiamo questo tasto!
«In che senso?!».
Se apriamo il vostro curriculum dei premi devo chiedere al direttore del giornale, altre due pagine! Però Lucrezia di uno devo assolutamente chiederti…
«Penso ti riferisca a quello per le bottiglie affinate in mare. L’idea originaria non è stata nostra, ce l’ha proposta un’azienda start up che ha mostrato di tenere in altissima considerazione i nostri vini; ho trovato la proposta in sé vincente: trascorsi 6 mesi e 30 giorni in fondo al mare, la bottiglia è diventata corollata, molto particolare, e il vino ha assunto un sapore gustoso ed elegante. Abbiamo fatto anche un assaggio comparativo, non dico bendandoci, ma non sapendo quale bicchiere avesse il vino rimasto sotto il livello del mare: la differenza l’abbiamo notata subito».
Poi avete fatto un altro particolare tipo di affinamento, mi pare di ricordare.
«Esatto, abbiamo messo un bianco Chardonnay con una percentuale di Verdea, tipico di San Colombano, dentro anfore in grès porcellanato: il vino ha sviluppato così una eccellente mineralità, ossigenandosi, e riflettendo le caratteristiche del vitigno».
Lucrezia, oltre la tua famiglia, a chi riconosci meriti particolari nel successo della vostra azienda?
«Noi siamo una squadra. Sandro e Sara lavorano in collina, sono fondamentali. In cantina Luca svolge un lavoro preziosissimo. La parte produttiva è seguita da Domenico. Tra noi sviluppiamo ottime sinergie».
A proposito: in azienda ti avvali della consulenza di Elisabetta Luciano, prima di chiederle qualcosa direttamente, mi spieghi questa scelta?
«Intorno al nostro shop aziendale si è sviluppato un importante percorso di enoturismo, molti durante le degustazioni vogliono essere consigliati o guidati. Elisabetta da subito si è rivelata la persona adatta: aveva lavorato in precedenza anche in ristoranti stellati, conosce bene questo ambiente. Diciamo che lei rappresenta il nostro Brand Ambassador».
Elisabetta, che bella presentazione! Domandina per te: sbaglio o le donne sommelier sono in espansione?
«È vero: abbiamo una maggiore sensibilità, riguardo al gusto ed al fiuto. La mia è una passione, sviluppatasi poi in lavoro, conseguente al mio interesse per la cucina: facevo i corsi sul cibo, e poi mi scoprivo ad approfondire gli aspetti relativi al vino».
Che caratteristiche devono possedere i vini abbinati al cibo?
«A mio avviso qualunque tipo di vino va abbinato alle tradizioni del territorio. Su un risotto alla milanese, ad esempio, abbinerei per forza un Rosso di Valbissera. Il nostro Amphora Moris, quello porcellanato cui faceva riferimento Lucrezia, lo abbinerei ad un risotto alla zucca con taleggio e formaggi».
Vi sono vini intramontabili?
«Ogni vino ha la sua epoca. Te li ricordi il Gewurztraminer piuttosto che il Pinot grigio? C’era il periodo che sembrava esistessero solo questi. Un vino è sempre legato ad una moda. Alla Poderi di San Pietro si sta producendo un Archaan, un orange wine, con maturazione in legno, di gusto secco, che a mio avviso sarà molto valorizzato nel futuro, anche se adesso lo conoscono in pochi: non dimenticare che te lo avevo predetto».
Elisabetta, puoi suggerirmi un vino dell’azienda che possa bersi senza necessità di accompagnare per forza un cibo?
«Assolutamente il Monastero di Valbissera, oppure il Trianon, un rosso prodotto da viti poste su un angolo delle colline banine. Però io vi aggiungerei due castagne abbrustolite ed un sigaro».
Voi avete la Verdea, ma non si potrebbe spumantizzare?
«Stai dicendo un’eresia: è un’uva povera di acidità, sarebbe un insuccesso».
A proposito: due castagne e un sigaro, li avete in negozio?
«Nel locale non si può fumare, ma un buon vino te lo facciamo assaggiare».
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